A partire dagli anni Settanta del secolo scorso in Italia si rese necessario prendere provvedimenti al fine di reprimere il nascente fenomeno del terrorismo di matrice politica. Tali provvedimenti portarono alla formulazione dell'articolo 280 del Codice penale, che recita:
“[1] Chiunque per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, nel primo caso, con la reclusione non inferiore ad anni venti e, nel secondo caso, con la reclusione non inferiore ad anni sei.
[2] Se dall'attentato alla incolumità di una persona deriva una lesione gravissima, si applica la pena della reclusione non inferiore ad anni diciotto; se ne deriva una lesione grave, si applica la pena della reclusione non inferiore ad anni dodici.
[3] Se i fatti previsti nei commi precedenti sono rivolti contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie ovvero di sicurezza pubblica nell'esercizio o a causa delle loro funzioni, le pene sono aumentate di un terzo.
[4] Se dai fatti di cui ai commi precedenti deriva la morte della persona si applicano, nel caso di attentato alla vita, l'ergastolo e, nel caso di attentato alla incolumità, la reclusione di anni trenta.
[5] Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, concorrenti con le aggravanti di cui al secondo e al quarto comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti.”
Viene dunque riconosciuto come “attentato” un atto mediante il quale l’agente commette azioni idonee e inequivocabilmente dirette a provocare la morte o delle lesioni anche a una singola persona; tuttavia, perché il reato commesso sia qualificabile come “attentato per finalità terroristiche o eversive” è necessario anche che l’agente operi nell’ambito di particolari ideologie, che abbiano per l’appunto carattere terroristico o eversivo. Da ciò deriva logicamente il disposto del comma 3: nell’ottica di tale reato, infatti, risulta evidente che l’aggressione ai danni di un qualunque rappresentante dello Stato e della giustizia (come possono esserlo, ad esempio, un carabiniere o un giudice) debba necessariamente considerarsi come un aggravante.
Il principio vale anche quando ad essere oggetto dell’attacco sia una base militare di un Paese straniero all’interno dei confini territoriali dello Stato.
L’art. 280 bis, che tratta nello specifico gli atti di terrorismo “con ordigni micidiali o esplosivi”, venne poi inserito nel Codice nel 2003, dopo l’adozione da parte dell’ONU della “Convenzione internazionale degli attentati terroristici mediante l’utilizzo di esplosivo” del 1997, e dispone quanto segue:
"[1] Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque per finalità di terrorismo compie qualsiasi atto diretto a danneggiare cose mobili o immobili altrui, mediante l'uso di dispositivi esplosivi o comunque micidiali, è punito con la reclusione da due a cinque anni.
[2] Ai fini del presente articolo, per dispositivi esplosivi o comunque micidiali si intendono le armi e le materie ad esse assimilate indicate nell'articolo 585 e idonee a causare importanti danni materiali.
[3] Se il fatto è diretto contro la sede della Presidenza della Repubblica, delle Assemblee legislative, della Corte costituzionale, di organi del Governo o comunque di organi previsti dalla Costituzione o da leggi costituzionali, la pena è aumentata fino alla metà.
[4] Se dal fatto deriva pericolo per l'incolumità pubblica ovvero un grave danno per l'economia nazionale, si applica la reclusione da cinque a dieci anni.
[5] Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo e al quarto comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti."
In sostanza è considerato atto terroristico anche quello che miri non solo a mietere vittime, ma anche a danneggiare l'economia di un Paese colpendone le infrastrutture.
A LIVELLO INTERNAZIONALE, invece, la situazione è più complessa, data la mancanza di una definizione concorde e unanime del fenomeno terroristico.
Il Sesto committee dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si occupa delle questioni legate al diritto internazionale, sta lavorando da anni alla stesura di un trattato (la c.d. “Convenzione comprensiva sul terrorismo internazionale”), le cui negoziazioni si trovano però a un punto morto, dovuto proprio a un mancato accordo riguardante la definizione di atto terroristico. Tale definizione non è controversa di per sé, ma a causa della messa in discussione da parte degli Stati membri della sua applicabilità alle forze armate o ai movimenti di autodeterminazione di un paese. L’ipotesi di trattato finora elaborata recita:
“1. Una persona commette un’infrazione nei termini di questa Convenzione se quella persona, intenzionalmente e illegalmente, causa, attraverso l’uso di qualsiasi mezzo:
(a) La morte o una seria lesione di un’altra persona; o
(b) Danni rilevanti a una proprietà pubblica o privata, inclusi luoghi pubblici, strutture statali o governative, servizi di trasporto pubblico, ad altre infrastrutture o all’ambiente; o
(c) Danni a proprietà, luoghi, strutture o sistemi riportati nel paragrafo 1(b) di questo articolo, tali da risultare in perdite economiche ingenti,
laddove il fine di simile condotta sia, per sua natura o dato un particolare contesto, quello di intimidire una popolazione o di costringere un Governo o un’organizzazione internazionale a fare o non fare qualcosa.”
In ogni caso, appare evidente che la legge italiana, per una volta, è all’avanguardia, avendo elaborato una definizione del reato di terrorismo che ben potrebbe essere riconosciuta ed applicata, così com’è, anche dalle Istituzioni internazionali.
Avv. Antonio Rubinetti